sabato 29 marzo 2014

fatevi i gatti vostri n. 550 " roba vecchia"

Questa l'avevo scritta io sulla base di  ricordi di scuola. Comparve nel nostro blog su splinder e partecipò anche a un concorso di raccontini ricevendo immeritati consensi.
Dato che non volevo farmi scudo di Paolieri per giustificare la noia che produce la mia pagina sulle novelle, stavolta me la gioco in prima persona. Ripubblico, dunque, "il sudicio" sia per chi non ci conosceva "illo tempore"   sia per chi avesse voglia di rileggerlo. Anzi, siccome dai commenti leggo che alcuni ascoltano  volentieri allego un file audio in cui il raccontino lo leggo io. Non sono un fine dicitore ma i fatti mi appartengono. Coi fatti anche tutto quello che essi han lasciato ne miei ricordi, così quello che non ci so mettere di tecnica  lo metto d'animo... e basta così sennò il discorso s'allungherebbe troppo. 
Un video non ce l'avevo e me l'ha creato alla svelta mia nipote Dani. Le sedie e le barche l'ho fatte a olio davanti al mare, diverso tempo fa, il gatto è Ito, quello col cappello io.

Bon vikkende
Dante

Il sudicio                                                                                        (Dante Davini Diversi 1982)
Arrivò a Livorno ai primi del sessantasei. Orfano di pastori della Garfagnana era stato affidato a parenti che abitavano vicino a me sull'angolo tra viale Caprera e la Venezia. S'era in quinta elementare, io e Dino Ciampi insieme nell'ultimo banco. Tra i primi della classe quanto a profitto, sul filo del temuto sette in condotta per il comportamento. Giovanni, aggiuntosi con ritardo, nel mese di gennaio, ebbe l' onore di un banco isolato,sistemato, per l'occasione, dietro il nostro.  Il colorito della pelle, le mani unte, le ginocchia con la "roccia", gli valsero subito il soprannome di "sudicio". Aveva ripetuto la quarta tre volte dopo essere giunto alla terza regolarmente, attraverso la frequenza di una policlasse rurale  in cui trovavano posto bambini  dai 6 agli 8 anni mescolati insieme. Chissà quanto starà in quinta?- osservò Dino a voce tanto alta  da farsi sentire, ma il nuovo arrivato gli mostrò un pugno rozzo e spellato che non lasciava spazio ad interpretazioni diverse dalla minaccia. Ero grosso e alto quanto lui ma, quando lo affrontai, dopo l'ultima campanella, mi riempì la faccia di cazzotti. Con due anni e qualcosa in più di me  picchiava con destrezza e cattiveria. Salvai la faccia solo quando lo attaccai con forti pedate alle gambe. Dai calzoni corti sortivano due stecchi orrendi, uno particolarmente storto che doveva aver ricevuto la carezza della poliomielite. Cadde malamente e Dino che aveva buon cuore si mise in mezzo a far da paciere. Io sanguinavo dal naso e dai denti lui tornò a casa trascinando la gamba sinistra. Diventammo amici, Dino lo aiutava nei compiti, io gli regalai una borraccia  dei soldati americani e un coltellino colla lama rotta. Fumava le nazionali, bestemmiava, toccava il culo alle bimbe della sezione femminile e sputava in terra di continuo ma a noi voleva bene. A marzo fu sospeso. La maestra l'aveva mandato dietro la lavagna e lui, con una naturalezza incredibile prese il recipiente di coccio con l'acqua, che stava sopra la stufa di mattoni rossi, versò l'acqua sulla cassetta della legna e ci pisciò dentro. Cacino,il figliolo di Melesecche, l'ortolana fu la spia. Dino lo sfece di botte ma ormai era fatta. Un mese a casa. Lo passò tutto da noi e gli servì più che stare a scuola. A Maggio era alla sufficienza. Agli esami di fine Giugno passò ed ebbe la licenza elementare. Morì d' Agosto sbagliando il suo numero preferito, il salto tra due tetti. Forse lo tradì quella povera gamba falsa. Corremmo all'ospedale, nonostante il divieto dei genitori. C'era già   il paravento pronto. Si agitava e con le ultime forze smanettava strusciando le dita contro il palmo . I parenti,sporchi ne loro abiti da lavoro, scuotevano la testa. Ci avvicinammo, Dino bagnò il fazzoletto nella brocca dell'acqua sotto al comodino. Capii e feci lo stesso col mio. Gli sfregammo ben bene le dita e il palmo delle mani. Ci sorrise e chiuse gli occhi tranquillo. Prima dell'esame di quinta, scherzando sul suo vecchio soprannome, Dino gli aveva detto che se uno bussa alle porte del Paradiso con le mani sporche...lo rimandano indietro.

giovedì 27 marzo 2014

fatevi i gatti vostri n. 549 " come riciclare un vecchio bidet "

Stiamo ancora ridendo per questa idea che non nasce da me, né da Dante o dai nipoti. Da tempo il bidet, corredo di un bagno ancora rigorosamente in stile anni 60, non viene usato per la sua primaria funzione. Io lo trovo antiigienico, Dante usa la doccia che abbiamo ricavato dalla vasca con una semplice tenda ad ombrello che lui ha fissato al muro sopra la vasca e che permette di risparmiare acqua e tempo.
Così l'uso primario del vecchio bidet è diventato quello di funger da  base d'appoggio per le cassette igieniche dei mici. 
Chi ha gatti sa bene che se non si voglion sentire odori per casa bisogna pulire spesso la sabbietta. Tra me e Dante arriviamo anche a 4 volte al giorno, del resto  c'è via vai di ragazzi e mamme per via delle ripetizioni e, per quanto modesta, mi piace che la casa profumi di pulito.
OK non tergiversiamo oltre:
Balena, con consueta  bolla ducale o dogiesca  o dogiale, come la chiama lui,  ha predisposto il riciclo del bidet in guisa di sua personalissima dependance







Col passare degli anni, a fine maggio ne compiranno 8, Balena si è stabilizzato. Nel senso che il suo peso resta costante sugli 11 kg. Le dimensioni potete vederle voi anche attraverso  il facile paragone con quelle, standard,  dei sanitari.
E' davvero GROSSO.

Un abbraccio da Holly

mercoledì 26 marzo 2014

fatevi i gatti vostri 548 " Ve ne ricordate?"

Ieri sera la wifi era completamente out. Rimedio questa mattina con il consueto post sul giallo italiano.

Il cappello del prete non credo sia stato visto da molti dei nostri lettori, noi ce lo siamo guardati in casa visualizzando a muro con un proiettorino da  attaccare al pc. Zio Dante lo ha trovato vicino a un cassonetto e con pazienza  lo ha rimesso a posto. Funziona bene ma la ventola si fa sentire in sottofondo. 
Il tutto faceva molto anni sessanta/settanta ma il film era davvero ben fatto e gli attori recitavano bene.

Continuando nella storia del giallo in Italia entriamo finalmente nel ventesimo secolo ma senza grandi onori
o lavori che possano eguagliare  i due storici lavori presentati nelle puntate precedenti . Mentre nel resto del mondo, tra i l 20 e il 40 si concretizza quello che sarà poi definito il periodo d'oro del romanzo poliziesco, dopo essere  rimasto in ombra per decenni, il giallo italiano ritrova nuova linfa grazie ai romanzi di Augusto De Angelis (1888-1944), creatore del commissario De Vincenzi della Squadra Mobile (Il banchiere assassinato, 1935).Il termine “giallo” che identifica questo genere letterario in verità trae origine dal colore che contrassegnava la collana specializzata italiana di genere, edita da Arnoldo Mondadori. In altri paesi si è parlato di “noir”, di ” roman policier” (Francia), di “detective novel”, ” mistery”, ” thriller”, ” suspense”, ” crime novels”, ” true novels” (paesi anglosassoni), “krime” (Germania)
Nella sua breve carriera, De Angelis  scrisse poco meno di una ventina di romanzi polizieschi, nei quali nella maggior parte è  appunto protagonista il commissario De Vincenzi,   un personaggio arguto ma molto umano, attraverso il quale l'autore si svincolò presto dai cliché dell'investigatore di stampo anglosassone, creando una sorta di Maigret italiano ante litteram.
Nonostante il buon successo dei suoi romanzi, tuttavia, De Angelis non poté goderne a lungo: la censura del regime fascista infatti impose il sequestro del romanzi noir nonché la chiusura della famosa collana dei gialli Mondadori, sia perché vedeva con sospetto il genere letterario noir cosiddetto d'élite, considerato come un prodotto della cultura anglo-sassone, sia perché, per motivi propagandistici e di ordine pubblico, tendeva a far scomparire il crimine dalle cronache e dalla letteratura.De Angelis ritenuto antifascista   patì le persecuzioni del regime tanto da morirne nel 1944.
Alcuni dei suoi scritti vennero pubblicati o ripubblicati postumi ad inizio degli anni sessanta, e da essi furono ricavate le serie televisive con taglio dello sceneggiato di stile teatrale-televisivo.
La prima serie articolata su tre storie ciascuna delle quali sviluppata in due episodi girati in bianco e nero, venne trasmessa nella prima serata della domenica sera fra il 24 marzo e il 9 aprile 1974, mentre la seconda serie - pure basata su tre diverse storie - andò in onda a partire dal 18 marzo 1977. Il ruolo di De Vincenzi fu affidato a Paolo Stoppa.


Le sceneggiature dei diversi episodi del seriale - ambientati, come i romanzi polizieschi da cui erano ricavati, nell'Italia degli anni trenta posta sotto il regime fascista - furono affidate ad un'équipe di autori specializzati in fiction di investigazione: Manlio Scarpelli, Bruno Di Geronimo, Paolo Barberio, Nino Palumbo.

Non ho disponibili in formato testo o simile alcuno dei gialli di De Angelis ma su you tube si trovano varie puntate andate in onda in Tv. 
Ecco il commissario De Vincenzi che, normalmente in forza alla squadra mobile di Milano, si trova a risolvere un delitto avvenuto a Cinecittà
 Vi auguro  una rilassante visione

un abbraccio a Tutti Bob








sabato 22 marzo 2014

fatevi i vostri n 547 "Il gatto e il padrone"

Di certo non credo che i gatti possano avere un padrone. Né,del resto, in questa novella, il cosidetto "padrone" vanta la proprietà del gatto. C'è in tutta la narrazione un gusto pittorico e un fotografare la realtà che mi fanno pensare a come Paolieri non abbia avuto il giusto posto negli scranni letterari d'allora e neppure d'ora.
Visto che l'audio vi è resultato gradito, finché posso, continuo a linkarlo.
Un abbraccio a tutti

Dante

la novella la ascoltate cliccando qui sopra


IL GATTO E IL PADRONE

Sotto la pergola di convolvoli e di pampani mescolati insieme bizzarramente, d'onde filtravano, sul terreno ghiaioso del giardinetto, vivi occhi solari in mezzo all'ombra celeste della giornata afosa, il «padrone», sonnecchiava sopra una vecchia sedia di giunco a spalliera.
Lo chiamavano il «padrone» di soprannome, forse perchè non era padrone di nulla, altro che di un gatto soriano, enorme, ormai anziano e non poco intignato.
Caso curioso, ma non infrequente, gatto e padrone si rassomigliavano.
Il gatto aveva nelle pupille grige tutta la fintaggine sorniona della sua razza, e il padrone aveva nelle iridi smorte degli occhi cinerei tutta la rassegnazione paziente di chi non ha mai fatto nulla, contentandosi d'aspettare la manna dal cielo.
E, naturalmente, l'aveva con quelli che lavoravano.
Parlava poco; ma se passava il medico, tutto trafelato, colla schiena rotta dai sussulti del barroccio d'un contadino, eccolo urlare: - Io, se fossi il padrone del pane, a quello, non gliene darei punto!
- O perchè? - gli chiedevano.
- Perchè è un vagabondo! Bella fatica!... andare a spasso tutto il giorno e far due segni, col lapis, sur un foglio di carta....
Dunque, il gatto e il padrone, si rassomigliavano.
Il padrone sonnecchiava sopra una vecchia sedia di giunco, a spalliera; il gatto dormiva in un'aiòla di giaggiòli.
Aveva stiacciato lo stelo di tre o quattro e così era riuscito a farsi un covo, d'onde, pigramente sdraiato con  tutt'e quattro le zampe intirizzite dalla beatitudine, seguiva i ghirigori fulminei che le rondini tracciavano nel lembo rettangolare d'aria turchina fra la gronda del tetto e il margine della pergola.
Nel silenzio dell'ora calda, afosa, era un gran ronzio d'api, di vespe e di calabroni.
Le campanule secche dei convolvoli pendevano all'ingiù come cose morte, i pampani avevano delle strane chiazze malate, di ruggine, in mezzo al verde e una lucertola smeraldina, arrampicata lungo un palo di sostegno, ansimava, sbattendo gli occhietti, come se fosse lì lì per scoppiare.
Ogni tanto di sopra, dalle persiane socchiuse, veniva il rantolo del tossicone dello zio moribondo.
Il medico, l'odiato medico, non ci si fermava nemmeno più.
Aveva detto la sua ultima parola, un parolone che faceva andare il sangue al capo del padrone quando si provava a ripeterlo, e così credeva esaurito il suo compito.
Invece d'esser contento perchè il medico non faceva più visite e il conto s'era fermato, il padrone s'arrabbiava perchè il dottore se la cavava con una parola latina, o quasi.
E cavava di tasca il foglio dove l'aveva scritta a lapis e la rileggeva, stentando.
- E...mi...ple...gia!
Tanto valeva che avesse detto «un accidente». Gli pigliasse anche a lui!
E ora quel sacco di panni sudici ansimava lassù, nella camera calda come un forno, facendosi ogni cosa sotto e stentando a morire.
- Quanto potrà campare? - aveva chiesto il padrone al medico, mentre se ne andava per l'ultima volta.
- E chi lo sa? un mese, un anno, due mesi, due anni.... ha avuto una paralisi dal lato sinistro, del resto è sano come e più di noi!
Il padrone faceva i conti; intanto aveva licenziato la vecchia Càtera.... Non si sa mai! e tirava a risparmiare anche il lesso per il brodo e le cucchiaiate del calmante.
Ogni mattina, levandosi, sperava che fosse l'ultima.
Scendeva col suo passo lento, d'uomo che non ha mai avuto preoccupazioni, la scala; andava in cucina, tirava l'acqua, metteva il paiolo a bollire, su poche frasche avanzate alla potatura, saliva in camera a veder che cosa ci fosse di nuovo, mutava il «toppone» al malato, aspettava che quello si appisolasse e ritornava giù, sotto la pergola, come il giorno innanzi.
Sotto la pergola tutto era uguale alla mattina prima, e il gatto, con un occhio attento ai voli delle rondini, pareva non si fosse mosso di lì.
Il gatto aspettava da sei mesi che una rondine cascasse giù, per mangiarsela.
Il padrone aspettava da sei mesi che lo zio morisse, per ereditare la casa, il campo, l'orto e seguitare a campare in quel modo, contentandosi di pochissimo, pur di non far niente.
Il contadino diceva: - Quando diventerete padrone davvero, di nome e di fatti?
- Quando a Dio piacerà! Io non ho furia.
Non aveva fretta, ma aspettava la morte, come il gatto aspettava la rondine, che cadesse al suolo.
La sera, quando l'ombra fasciava di silenzio la campagna e l'un'ora suonava mestamente dalla torre del borgo ricordando a chi si metteva a tavola di dire un requiem ai poveri defunti i quali, anche loro, esigono la loro cena spirituale, il padrone tendeva l'orecchio.
Ma nel silenzio rintronava uno scoppio di tosse, mentre dal nido sotto la gronda partiva l'ultimo cinguettio delle rondini che si accomodavano per dormire.
Allora, delusi, il padrone ed il gatto rientravano in casa.
Il padrone accendeva il lume a petrolio e, ritirato dal fuoco il tegame di zuppa rafferma, mangiava lentamente, coll'occhio atono fisso sulla parete bianca di faccia, buttando ogni tanto un pezzo di pane intinto alla bestia.
Poi spegneva il lume a petrolio e accendeva la candela.
Saliva la scala, entrava in camera del morituro; col gatto dietro.
Lo guardava dormire, rosso in viso, coll'occhio sinistro stravolto e la bocca torta, ma col respiro tranquillo.
Scrollava il capo e andava a letto.
Il gatto s'accomodava sulla pedana sfrangiata, mentre di fuori, appena spenta la luce, dalle imposte socchiuse entrava la melodia lontana dei grilli.
Venne l'autunno, rinfrescò, e una mattina il padrone tese invano l'orecchio agli scoppi di tosse dello zio.
Entrò in camera.
Era morto.... morto bene.
Buttò all'aria tutti i cassetti, voltandosi, ogni poco, a vedere se il morto avesse aperto l'occhio buono e lo guardasse; ma non trovò nulla.
Era morto intestato. Tanto meglio! Perchè l'unico parente, e il più stretto, era lui.
E dispose ogni cosa per il funerale; un funerale modesto. Carro di terza classe e lanternino dei poveri.
Ma, con sua grande sorpresa, verso il crepuscolo vide arrivare ghirlande di fiori, tutti i contadini coi torcetti, i mortuarii in cappa bianca e perfino la Misericordia, colla «banda» e in cappa nera....
Quelle disposizioni le aveva date la Càtera, lasciata erede con testamento depositato presso un regio notaio, di tutto, della casa, dell'orto e del campo!
Piovigginava.
Le luci rosse del trasporto si perdevano, come lucciole mostruose, dietro la siepe sull'orlo della quale spuntavano, invece, le stelle.
Il padrone seduto, sotto la pergola umida, sulla vecchia sedia di giunco, aveva l'aspetto d'un cencio inzuppato dall'acqua.
Il gatto, sulle quattro zampe, guardava su, verso il nido vuoto, d'onde le rondini erano partite.

giovedì 20 marzo 2014

fatevi i gatti vostri n 546 " un pezzo di sciarpa rosa"

Stavolta non vi presento uno dei miei lavoretti domestici, una ricetta o un riciclo casalingo.
Quella che vedete nella foto è un metro di sciarpa rosa, che ho appena realizzato.





Insieme a tantissime altre volontarie mi son presa l'impegno di costruire una sciarpa enorme.
Il messaggio che questa sciarpa manda è quello della prevenzione 

Il Comitato A.N.D.O.S onlus di Chioggia è il promotore dell'iniziativa. L' A.N.D.O.S. si è costituito l’otto marzo 1999, una data che non a caso è stata scelta da parte delle prime socie, con quella della festa della Donna.
Il nostro Comitato, che conta attualmente 80 socie, è nato per iniziativa di donne operate e curate per neoplasia della mammella che hanno sentito la necessità di condividere la propria esperienza con altre donne, ma anche di testimoniare, di aiutare, di informare, affinché nessuna si senta sola e spaventata di fronte alla malattia.

Per farsi conoscere meglio in città quest’anno l' ANDOS ha  invitato tutti/e a partecipare alla creazione della più grande sciarpa rosa mai realizzata in città. Una sciarpa, da realizzare entro fine marzo con tutti gomitoli rosa, che avvolga idealmente la città di Chioggia, ottenuta da tantissimi pezzi realizzati da mani abili o incerte, mani di donne o di uomini giovani, adulti o anziani.

In tante altre parti d' Italia si stanno confezionando sciarpe rosa

donne sempre unite nella solidarietà
un abbraccio a Tutte
Holly

martedì 18 marzo 2014

fatevi i gatti vostri n. 545 " un vero noir di fine secolo" libro & film

Prosegue il nostro percorso nella storia del giallo italiano e stavolta presentiamo quello che a pieno diritto a parer nostro viene definito il primo noir italiano.


Pubblicato a puntate nel 1887 e in volume nel 1888, "Il cappello del prete" èstato il romanzo più famoso di Emilio De Marchi, subito tradotto ancheall'estero. Ambientato a Napoli, narra le vicende del nobile squattrinatoCarlo Coriolano, barone di Santafusca che, ridotto alla rovina dai debiti digioco e da una vita oziosa e dissipata, uccide il ricco prete usuraio donCirillo per impossessarsi dei suoi soldi. Ma al suo "delitto perfetto" mancaun dettaglio chiave: l'occultamento del cappello del prete. Diventato unindizio pericoloso, il tricorno tormenterà il barone come una sorta diallucinazione ricorrente, fino ad arrivare, dopo una serie di peripezie,davanti al banco del tribunale per inchiodarlo alla sua colpa. Romanzooriginale, definibile un "giallo psicologico", "Il cappello del prete" restaancora oggi un esempio di letteratura d'intrattenimento di alto livello, incui De Marchi riprende la lezione della grande narrativa europea - daDostoevskij a Poe, da Manzoni al verismo - alternando con maestria il tonoleggero del bozzetto ottocentesco con il registro cupo del romanzo gotico.

Qui potete scaricare il libro

Nel 1943 Ferdinando Maria Poggioli girò un adattamento cinematografico Il cappello da prete. Il film si discosta notevolmente dal libro di De Marchi. Tanto per cominciare, probabilmente per questioni di censura, Don Cirillo non è un vero prete ma un seminarista che ha interrotto gli studi per motivi non meglio specificati [2]. La figura del Barone Carlo Coriolano di Santafusca, nel film, è trattata con una certa benevolenza: è un personaggio arrovellato e dolente vittima di se stesso. Nel libro invece è descritto come cialtrone spendaccione e cinico.

Oltre ad altri importanti particolari riguardo alla morte di Don Cirillo fondamentale è la modificia del finale, che vede il Barone esprimersi in una confessione in terza persona di stampo catartico ed autopunitivo, confessione a cui segue lo sprofondare nella follia sancito da una liberatoria risata. Finale concettualmente ben diverso da quello del libro. Bravissimo Roldano Lupi, che interpreta un allucinato e sofferente Barone di Santafusca; perfetto Luigi Almirante che incarna un Don Cirillo ambiguo e avido. Bravi anche i comprimari Luigi Pavese, Loris Gizzi e lo sfortunato Elio Marcuzzo. Il film uscì in prima proiezione pubblica il 10 novembre 1944 con il titolo Il cappello da prete. [fonte: Wikipedia]

qui sotto potete vedere la versione televisiva del 1970, con la regia di Sandro Bolchi
è suddivisa in tre sezioni

spero che il tutto sia di vostro gradimento (ingrandendo a tutto schermo la definizione del filmato resta molto buona)
Bobby





sabato 15 marzo 2014

Fatevi i gatti vostri n. 544 "Gente d'altri tempi"



Anche stavolta corro di sabato: La novella l'ho pronta e così  Vi lascio maggior comodità per la lettura e l'ascolto,  ché in un ritaglino di domenica potrebbero  anche resultare gradevoli.
Sabato scorso ho postato una bella novella di Paolieri dalla quale la "gente moderna" d'allora palesava vizi e astuzie del tutto paragonabili a quelle d'oggi.
Insisto col medesimo autore anche in questo post regalandoVi, come contrappunto, "gente d'altri tempi". La voce narrante è sempre quella piacevolissima e intonata alla toscana di Silvia Cecchini.
Il testo l'ho messo di seguito mentre potrete ascoltare l'audio CLICCANDO QUI SOPRA
un abbraccio da Dante

GENTE D'ALTRI TEMPI.



Quand'ero ragazzo sentivo sempre vantare, come mostri di coraggio, di bellezza, di forza «gli uomini d'altri tempi».

In campagna specialmente, uno non era padrone di accusare un po' di malessere, un dolor di capo, una trafitta al piede, che cento persone gli saltavano addosso umiliandolo a furia di confronti, riducendolo in uno stato da far pietà a forza di portargli per esempio la salute, la bellezza, il coraggio degli «uomini d'altri tempi».

E i vecchi erano i più accaniti.

A sentir loro non avevano mai avuto un incomodo e, se erano arrivati a quell'età lo dovevano a un monte di precauzioni che oggi non si usano più. Loro avevano mangiato cibi sani, avevan bevuto vini non artefatti, s'eran sempre levati all'alba ed erano andati a letto a calata di sole, s'erano vestiti di lana, non avevano mai straviziato e via dicendo!

Certi discorsi mi lasciavano profondamente ammirato ed entusiasta ed avrei pagato chi sa che cosa per conoscere qualche campione di codesta razza il quale fosse stato, per avventura, ancor vivo.

Ma invece mi toccava a limitarmi ad ascoltar il racconto che delle geste di suo padre, nato nientemeno nel 1785, faceva la mamma, a veglia, tra gli «Oh!» di stupore di tutta la famiglia.

Lei non se ne ricordava neppure perchè quando il suo babbo morì aveva nove anni, ed era nata che lui ne aveva compiuti sessanta, ma quelle cose le conosceva dai racconti della sua mamma che invece morì nel 1885, giusto nella ricorrenza centenaria della nascita di mio nonno....

E tutti a far la bocca rotonda e a dire, in coro: Che tempra! Avere una figliola a sessant'anni sonati!

- E sana anche, non fo per dire!

- Sconta del giorno d'oggi!

- La gioventù moderna? Che Dio ne scampi e liberi tutti!....

Però un esemplare di codeste razze c'era anche nella nostra famiglia e mi fu rivelato in campagna, una sera in cui essendo tornato uno dei miei fratelli da caccia senza riportare neppure una penna, l'argomento cascò sulla gran quantità d'uccelli che pigliava il povero zio, il quale sarebbe stato figliolo di primo letto di quel nonno di cui si conservavano, come reliquie sacre, lo spadino e la parrucca di quando andava «a corte» da Canapone.

Anche lui, codesto terribile cacciatore che ammazzava cinque seicento uccelli al capanno, era defunto da un bel pezzo, ma ci rimaneva sua moglie, e per conseguenza mia zia, la quale non s'era più mossa, dopo la morte del marito, dalla villa di Santo Romolo dove egli era sepolto nella cappella di famiglia.

Avevo, allora, una dozzina d'anni, e sono, quindi, in grado di ricordarmene benissimo. Un bel giorno la mamma mi portò lassù, e mi pare ancora di rivedere quel lembo di mondo scomparso come se mi fosse davanti.

Il sole d'ottobre colava tiepido fra gli allori potati a disegno di un boschetto settecentesco e aveva sulla ghiaia color d'oro la stessa trasparenza del miele che da tutte le parti, api dai riflessi amaranto s'affaticavano a succhiare nei quadrati di crisantemi gialli, rossi, bianchi e turchini che stellavano le due parti del giardinetto divise da una minuscola vasca rotonda con poca acqua verde e immobile in cui tentava di specchiarsi invano un Narciso di terracotta in calzoni corti e cravatta a gale, senza naso.

La zia Elvira, circondala dalla sua corte, era a godersi gli ultimi residui della buona stagione sotto il berceau, e la corte consisteva nelle sue quattro figliole e in una donna di servizio, vecchia decrepita.

Quando s'arrivò, verso mezzogiorno, la zia s'era alzata d'allora, secondo la consuetudine presa dopo la morte del marito, perchè quando era vivo lui codesta gente d'altri tempi, che si mangiava rendita e patrimonio senza voler pensare ad altro, aveva abitudini anche più comode. Lo zio si levava alle cinque per andare al capanno e la zia gli preparava il caffè in camera col fornelletto a spirito, poi, quando lui tornava, verso le dieci, stanco d'avere schiacciato francescanamente il capo a cinquecento uccellini del buon Dio, rientrava tranquillo a letto e ci restava fino alle due dopo mezzogiorno, ora nella quale marito e moglie pranzavano, sempre coricati, come Gioacchino Rossini! La sera la passavano a biascicar ballotte d'inverno e brigidini d'estate, a dire il rosario di quindici poste o l'ufficio dei morti; poi giravano per tutta la villa ispezionandola dalle cantine ai solai, ma ciascuno per conto proprio, armati, lei di pistola e lui di doppietta, col patto di incontrarsi, dandosi preventivamente l'avviso con tre grandi urli, nel salotto da pranzo. Quand'erano vicini alla fine dell'ispezione lui scaricava la doppietta dal finestrino del granaio, richiudeva e scendeva; lei esplodeva un colpo di pistola sotto le vòlte del celliere frantumando qualche bottiglia vuota, poi risaliva. Dalle scale, di sopra e di sotto, montava il grido: Elvira! - Agostino! - Ci siete? - Ci sono? - Siete voi? - Sono io! - E finalmente, commossi, i due coniugi cadevano, estenuati, l'uno nelle braccia dell'altro; anche per quella notte eran salvi! E albeggiava....

La zia, dunque, sedeva sotto il berceau, vestita con un giacchetto di seta color tabacco e guarnizioni di jais nero, e con una sottana pure di seta, dello stesso colore, col cerchio, moda a cui per nessuna ragione l'egregia donna avrebbe rinunziato. I capelli, scrupolosamente tinti, aveva divisi in due bande che le scendevano con due pecette a coprire gli orecchi da cui ciondolavano lunghe «gocciole» nere.

Dalla morte del marito portò sempre il mezzo lutto.

Le ragazze non erano molto dissimili da lei, colle sottane a sboffi e la coda legata per le spalle, tutte, comprese quelle che s'avvicinavano alla trentina, e una di queste, una specie di «monaca di casa» aveva un aspetto singolarmente jeratico, diafana, colle lunghe mani d'avorio tagliate dai guanti di fil di scozia, inguainata come una spada in un vestito nero col colletto rigido e un dito di trina a fior del mento, sì da parere che per spogliarla e metterla a letto qualcuno l'avesse dovuta sfoderare da quell'involucro estraendola per la testa.

E ricordo, di codesta figura, un'altra prerogativa: l'assenza assoluta di curve; un palo vestito.

Appena arrivati, fatti i convenevoli, scambiati i baci d'uso e seduti in giro sui corbelli di terracotta rovesciati con sopra un cuscino di seta verde, una ragazza in grembiule bianco ci servì un piatto di «crogetti», piccolissime pallottole di pasta fritta, spalmate di miele sopra una stesa amarognola di foglie d'alloro, e la cioccolata.

Per esser vicini all'ora di desinare non si cominciava male! Intanto il rudere ottocentesco ci parlava dei ruderi settecenteschi, del bisnonno Imperial Regio Antiquario e della sua raccolta di studii araldici andata distrutta, e del nonno ingegnere che aveva guidato le truppe Francesi all'occupazione di certi conventi, e che poi aveva bonificato le maremme per ordine di Canapone, e a codesto proposito, accorgendosi che mi divertivo, promise di raccontarmi per filo e per segno quel che aveva saputo dal suo povero marito, storie terribili dove c'entravano perfino i briganti!

Io avrei voluto sentir subito codeste storie e m'attaccavo all'immensa gonnella implorando, ma la zia preferì di ritornare a parlar del consorte e, prima di metterci a tavola, ci guidò in un salotto rococò dove tirò fuori da una cassapanca uno spaventevole elmo con un appendice  ondeggiante e un sottogola da disgradarne quello di Ettore. Era l'elmo di «capitano» della guardia nazionale del defunto zio! E allora seppi che, fattasi la smagliantissima uniforme con quel formidabile cimiero e indossatala, non ci fu versi di persuaderlo ad uscir di casa perchè si vergognava a farsi vedere in quel modo, e così, spogliatosi in fretta, perchè sotto le finestre della casa dove allora abitava, a Firenze fuor di porta San Frediano, due o tre ragazzi gridavano per aver qualche monetuccia: «Viva il signor capitano!» gli vennero i brividi e dovè mettersi a letto dove rimase otto giorni.

Tutti lo chiamavano «Sor Agostino» compreso suo padre il quale visto l'umore di quel figliuolo che, dopo presa la laurea d'ingegnere stava tutto il giorno a letto e al capanno, se lo era distanziato con un lei complicato dal sor, che in bocca ad un babbo doveva esser dolce come le stilettate.

Delle figliole tre tiravan dal nonno ed eran vispe, ma la monaca di casa aveva l'umor malinconico; chi la voleva dovea cercarla in cappella dove il giorno dei morti faceva alzare le lapidi e scendeva ad abbracciar le bare. I contadini l'avevano in concetto di santa.

A me, ragazzo, codeste figure e il fantasma dello zio si impressero profondamente nel cervello e per tutto il tempo del desinare non feci che guardare con ansia le pecette e le gocciole della veneranda signora Elvira nonchè il mannequin di cera della monaca di casa. Questa l'avevo di faccia; a un tratto calò, dì fuori, una gran tenda sul sole e cominciarono a dilagare dai vetri opachi delle finestre i lampi nella stanza semioscura; tutta la villa, fabbricata proprio sul cocuzzolo d'un poggio, tremava e una turba di cipressi, simili a tanti incappati che vigilassero quel cimitero di vivi, si sbatacchiava disperatamente davanti alla facciata alternando ombre sul pavimento e scaraventando manciate sonanti di gocciole contro i cristalli. In codesto barlume, fra un lampo e l'altro, mentre le opache forme dei cipressi traversavano veloci la stanza e s'aspettava che la donna recasse una lucerna a tre becchi, vidi sulla tovaglia, più chiare di questa, le mani fosforescenti della cugina e il suo volto d'alabastro e mi strinsi alla mamma, impaurito, come se al buio, a un tratto, mi fossi trovato dinanzi una zucca vuota, con gli occhi, il naso e la bocca illuminati di dentro.

Venne la lucerna a tre becchi e un lume a petrolio che filava da asfissiare, ma vennero anche le scaloppe al madèra, gateaux fatti in casa guerniti di confetti e d'anaci, e ancora «crogetti» e stiacciatunte e panelli coll'uva e donzellette di lievito e giuncate di ricotta e marmellate di frutta e vini traditori e rosolii di tutte le qualità.

- Ma perchè tanti complimenti? - insinuava mia madre.

- Si mangia sempre così! - biascicava la zia affaticandosi colle ganasce sdentate, e la monaca di casa, paga d'un grappolo d'uva, annuiva colle sue terribili mani, incrociate sulla tovaglia. Poi seguitava a raccontarmi, la zia, come da quando era stata sposa non fosse più scesa a Firenze e come il povero zio, allorchè doveva andarci per interessi, poichè a piedi non ce la faceva e col cavallo aveva paura, ci andasse sul carretto di una lattaia tirato da un cane maremmano.

- E la lattaia.... zia?

- Morta, da tanto tempo!

- E il cane, zia?

- Naturalmente, anche lui!

Ma dunque si moriva anche in quel mondo lì, dove tutti parevano già morti?

- Zia, come morì, lo zio?

- Di gotta.... come morirò anch'io....

- Perchè non fai un po' di moto? - chiese la mamma....

- A che scopo? Quando mi chiusi quassù il Granduca era ancora a Firenze. Non ho voluto più leggere giornali.... la notizia della sua fuga me la portò un cappuccino.... Guardate! - (e si piegò un poco sulla poltrona a braccioli). - Laggiù,  in quella camera, c'è la culla dove fui messa appena nata e dove sono state messe tutte queste figliole e in quel letto, dove dormo, dirò addio alla luce e appena mi avranno fatto scendere due branche di scale mi ricongiungerò ai morti.

- C'è anche il nonno, laggiù sotto?

- No, amore! Lui per non trovarsi vicino il figliolo neppure da morto si fece seppellire nella cappella sotterranea di San Matteo, sotto il coro, nella chiesa del Carmine di Firenze. Vedi, bambino, che gente, quella d'allora? Tutta d'un pezzo!

Ero imbecillito dal puzzo del petrolio e dai gran dolci che m'avevano cacciato giù per la gola in quelle interminabili quattr'ore passate a tavola; quando ci si alzò spioveva, ma il sole s'avviava al tramonto e il Pipi ebbe l'ordine di attaccare il somaro.

Si scese giù a furia di traballoni terribili per una carrareccia scavata unicamente dallo scolo dell'acque, io di dietro tirando la fune della martinicca con quanta forza avevo, coi piedi puntati, e la mamma davanti reggendo l'ombrellone d'incerato verde; ad ogni svolta si vedeva scemare il cocuzzolo dal quale la zia color tabacco, la cugina nero ed avorio e le altre gonnelle a sboffi si agitavano insieme a qualche fazzoletto bianco, finchè tutto scomparve.

S'era fatto, repente, un freddo cane e per di più il ciuco s'incaponì di non andare innanzi.

Legnate, calci nella pancia gonfia che risonava come un tamburo, nulla valse a smuoverlo.

- È vecchio - disse il Pipi a mo' di scusa - e quando «ha detto» una cosa....

- Già, mi scappò di bocca, gente d'altri tempi!

La mamma si mise a ridere, ma ormai, perso il trenino, ci toccò ad aspettare, sotto la tettoia e tra il puzzo di viscido della stazione di Signa, il diretto delle nove.


Appena fui adagiato sopra un bel cuscino di seconda classe gli effetti della giornata trascorsa «all'antica» si svilupparono e principiai a vedere un uomo vestito da capitano con grandi galloni rossi e d'argento il quale filava come le saette lungo la via provinciale sopra un carettino da lattaio trascinato da un bel cane maremmano. Perchè avevo una febbre da cavalli.






giovedì 13 marzo 2014

fatevi i gatti vostri n. 543 "ricicliamo ricicliamo"

Oggi vi presento alcuni interventi di riciclaggio che son così minimali e semplici da essere alla portata anche dei più riottosi all'esperienza manuale. 
Ovviamente mi auguro che nessuna delle amiche/i si trovi nella condizione di non poter spendere 2 euro in un reggilibri dell'Ikea. 
In fondo, però, se anche non mancano i due euro, visto che il risultato c'è e l'estetica non è male, si può anche realizzare il simpatico reggilibri e devolvere la piccola cifra in favore di chi  ne può avere un bisogno vitale. Tra le popolazioni più svantaggiate ad esempio e, ormai, anche qui da noi.
Reggilibri in cartone:
Materiale: un cartoncino da 2 3 mm di spessore, io ho usato quello della brochure di una profumeria ma se ne possono recuperare da tantissime altre fonti.


25 cm di spago da pacchi sottile  e una squadretta


 un taglierino

una perforatrice o  un fora cinture o un paio di forbici

Aiutandovi con  la squadretta incidete lievemente il cartone a metà senza reciderlo

l'incisione faciliterà la piegatura che avverrà dalla parte opposta al taglio

con la perforatrice, o con la macchinetta a stella per fare fori nelle cinture o se sprovvisti di ambedue anche con la punta delle forbici, allargando poi in maniera uniforme, praticate due fori come da immagine e passate lo spago annodando con un nodo piano.


 fate passare una parte dello spago dietro, il nodo sotto la base ed il reggilibro è pronto

dato che i libri fanno peso sulla sua ampia base, risulta anche di buona tenuta. (i libri sono a scelta vostra ovviamente)



guardate l' immagine qua sotto, questi son riciclaggi che ho appreso da Dante,




vedete quel flaconcino di medicinale? si tratta di clenil per aerosol che Dante deve fare per le sue solite bronchiti stagionali. Opportunamente tagliato è diventato un cappuccetto protettore per la mia chiavetta dati . Avevo perduto il suo e in giro nella borsa rischiava di sporcarsi e deteriorarsi nei contatti.
Con un altro pezzetto ho fatto una fascettina trasparente che mi permette di tenere in ordine le cuffie auricolari.
Al di sopra, ecco  un tubetto di medicine che ospita alla perfezione monete da due euro, serve da contasoldi e da borsellino,
intorno sono stati infilati tanti cerchietti di gomma nera ricavati dal taglio di una camera d'aria da bicicletta
sono elastici di grande tenuta e servono per tanti usi, due giorni fa ne ho usato uno per fermare il nylon di un obrello in modo solidale con l'estremità  della stecca in acciaio, aveva perso il puntalino, il nylon risaliva verso il centro  e mi stavo infradiciando, tre giri di elastico e la soluzione ha funzionato. L'importante è averne sempre in borsa qualcuno. Servono anche  per la chiusura e apertura reiterata dei  sacchetti in nylon nei quali raccolgo l'organico  e soprattutto la sabbietta della toilette dei mici.  Impediscono la fuoriuscita di mefitici  odori,nell'  attesa di portarli ai contenitori per la differenziata. Qui sotto l'  immagine del tipo di allaccio: potete lasciare la matita o un bastoncino infilato per aprire e chiudere in rapidità oppure far passare un'ansa dell'elastico nell'altra dopo che ha circondato la plastica del sacchetto..
















Infine ecco un portagioie costituito da una semplice scatola di cartone. La realizzazione risale all'estate del 2006 e voi che ci seguite da anni avrete già capito di quale gioie stia parlando



un abbraccione da

 Holly

martedì 11 marzo 2014

Fatevi i gatti vostri n. 542 " Il primo giallo italiano"

Ancora per una puntata (stavolta nel giusto giorno di edizione) mi permetto di annoiarvi con una lunga disquisizione sui canoni del giallo classico in calce a questo post, che mutuo, come il precedente post dal pregevole intevento del Cinese su un forum inerente il giallo del quale purtroppo non trovo più traccia grazie alla mia sbadataggine e al vizio di copiare in file testo le cose che mi interessano senza allegare il link della pagina in cui le ho lette.

Comunque prima di lasciarvi ai canoni del giallo, voglio premiare la vostra preziosa attenzione con un giallo d'archivio, addirittura con  quello che è considerato il primo giallo italiano e che per data anticipa perfino le stupende opere di Poe. Si tratta manco a farlo a posta di un romanzo ambientato a Napoli e scritto da un napoletano verace Francesco Mastriani  (Napoli 1819- 1891)  che fu autore di romanzi d'appendice di grande successo nonché drammaturgo e giornalista. 

Tutti i gialli che recensirò saranno a disposizione dei nostri lettori come ebook ma dato che non voglio crear problemi di copyright metterò il link per scaricarli solo in quelli ormai liberi dai diritti d'autore. Per ogni altro testo che desideriate sarà sufficiente che mi scriviate privatamente a esserinoebalena@email.it io vi indicherò come reperirlo. 
Un abbraccio a Tutti e se avete amici che amano il giallo fate passare la voce, che almeno non vada vana la fatica ahahha
Bobby
il primo giallo italiano lo trovate qui sotto



la trama: 
Protagonisti de “Il mio cadavere” sono quattro persone che vivono nella Napoli 1826: Daniel Fritzheim, alias Daniel De Rimini, è maestro di musica trovatello sottratto alla fame e alla morte da uno stradiere,Giacomo Fritzheim, che lo crescerà amandolo come uno dei suoi figli. Assetato di ricchezza Daniele De Rimini, però si rivelerà un mostro di irriconoscenza, mosso soprattutto  dall'ambizione; la povera Lucia che, dopo la morte dei genitori, deve sbarcare il lunario per dar da mangiare ai suoi quattro fratelli; l’avvenente e ricchissima Emma  figlia del Duca di Gonzalvo, nobile spagnolo in esilio a Napoli.Emma  è abituata a vedere gli uomini strisciare ai suoi piedi e infine  il baronetto dissoluto Edmondo. La morte di quest’ultimo porterà all’apertura di una vera e propria indagine da parte del dottor Weiss che analizzando il cadavere del povero Edmondo dimostrerà conoscenze di anatomia degne della moderna Kay Scarpetta e un fiuto da segugio infallibile. E dalla storia emergono poi questioni enigmatiche di cui verrà data soluzione durante lo svolgimento della storia: chi sono in realtà i cavalieri del firmamento? Chi è in realtà il misterioso Maurizio Barkley che sembra essere il vero artefice del complotto narrato nel denso feuilleton di Mastriani? 

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I CANONI DEL GIALLO  (a cura del CINESE)

Nel 1928 durante la cosiddetta "epoca d'oro" del romanzo giallo si sentì la necessità di stabilire un codice che fissasse le regole per creare un buon poliziesco. Fu il critico d'arte Willard Huntington Wright, meglio conosciuto come S. S. Van Dine, nel suo articolo "Venti regole per scrivere romanzi polizieschi" a dettare questi standard che generalmente sono stati seguiti sino ad oggi.

1. Il lettore deve avere le stesse possibilità del poliziotto di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce debbono essere chiaramente elencati e descritti.
2. Non devono essere esercitati sul lettore altri sotterfugi e inganni oltre quelli che legittimamente il criminale mette in opera contro lo stesso investigatore.
3. Non ci deve essere una storia d'amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all'altare.
4. Né l'investigatore né alcun altro dei poliziotti ufficiali deve mai risultare colpevole. Questo non è un buon gioco: è come offrire a qualcuno un soldone lucido per un marengo; è una falsa testimonianza.
5. Il colpevole deve essere scoperto attraverso logiche deduzioni: non per caso, o coincidenza, o non motivata confessione. Risolvere un problema criminale a codesto modo è come spedire determinatamente il lettore sopra una falsa traccia per dirgli poi che tenevate nascosto voi in una manica l'oggetto delle ricerche. Un autore che si comporti così è un semplice burlone di cattivo gusto.
6. In un romanzo poliziesco ci deve essere un poliziotto, e un poliziotto non è tale se non indaga e deduce. Il suo compito è quello di riunire gli indizi che possono condurre alla cattura di chi è colpevole del misfatto commesso nel capitolo I. Se il poliziotto non raggiunge il suo scopo attraverso un simile lavorio non ha risolto veramente il problema, come non lo ha risolto lo scolaro che va a copiare nel testo di matematica il risultato finale del problema.
7. Ci deve essere almeno un morto in un romanzo poliziesco e più il morto è morto, meglio è. Nessun delitto minore dell'assassinio è sufficiente. Trecento pagine sono troppe per una colpa minore. Il dispendio di energie del lettore dev'essere remunerato!
8. Il problema del delitto deve essere risolto con metodi strettamente naturalistici. Apprendere la verità per mezzo di scritture medianiche, sedute spiritiche, la lettura del pensiero, suggestione e magie, è assolutamente proibito. Un lettore può gareggiare con un poliziotto che ricorre a metodi razionali: se deve competere anche con il mondo degli spiriti e con la metafisica, è battuto "ab initio".
9. Ci deve essere nel romanzo un poliziotto, un solo "deduttore", un solo "deus ex machina. Mettere in scena tre, quattro, o addirittura una banda di segugi per risolvere il problema significa non soltanto disperdere l'interesse, spezzare il filo della logica, ma anche attribuirsi un antipatico vantaggio sul lettore. Se c'è più di un poliziotto, il lettore non sa più con chi sta gareggiando: sarebbe come farlo partecipare da solo a una corsa contro una staffetta.
10. Il colpevole deve essere una persona che ha avuto una parte più o meno importante nella storia, una persona cioè, che sia divenuta familiare al lettore, e lo abbia interessato.
11. I servitori non devono essere, in genere, scelti come colpevoli: si prestano a soluzioni troppo facili. Il colpevole deve essere decisamente una persona di fiducia, uno di cui non si dovrebbe mai sospettare.
12. Nel romanzo deve esserci un solo colpevole, al di là del numero degli assassinii. Ovviamente che il colpevole può essersi servito di complici, ma la colpa e l'indignazione del lettore devono ricadere su un solo cattivo.
13. Società segrete, associazioni a delinquere "et similia" non trovano posto in un vero romanzo poliziesco. Un delitto interessante è irrimediabilmente sciupato da una colpa collegiale. Certo anche al colpevole deve essere concessa una "chance": ma accordargli addirittura una società segreta è troppo. Nessun delinquente di classe accetterebbe.
14. I metodi del delinquente e i sistemi di indagine devono essere razionali e scientifici. Vanno cioè senz'altro escluse la pseudo-scienza e le astuzie puramente fantastiche, alla maniera di Jules Verne. Quando un autore ricorre a simili metodi può considerarsi evaso, dai limiti del romanzo poliziesco, negli incontrollati domini del romanzo d'avventura.
15. La soluzione del problema deve essere sempre evidente, ammesso che vi sia un lettore sufficientemente astuto per vederla subito. Se il lettore, dopo aver raggiunto il capitolo finale e la spiegazione, ripercorre il libro a ritroso, deve constatare che in un certo senso la soluzione stava davanti ai suoi occhi fin dall'inizio, che tutti gli indizi designavano il colpevole e che, se fosse stato acuto come il poliziotto, avrebbe potuto risolvere il mistero da sé, senza leggere il libro sino alla fine. Il che - inutile dirlo - capita spesso al lettore ricco d'istruzione.
16. Un romanzo poliziesco non deve contenere descrizioni troppo diffuse, pezzi di bravura letteraria, analisi psicologiche troppo insistenti, presentazioni di "atmosfera": tutte cose che non hanno vitale importanza in un romanzo di indagine poliziesca. Esse rallentano l'azione, distraggono dallo scopo principale che è: porre un problema, analizzarlo, condurlo a una conclusione positiva. Si capisce che ci deve essere quel tanto di descrizione e di studio di carattere che è necessario per dare verosimiglianza alla narrazione.
17. Un delinquente di professione non deve mai essere preso come colpevole in un romanzo poliziesco. I delitti dei banditi riguardano la polizia, non gli scrittori e i brillanti investigatori dilettanti. Un delitto veramente affascinante non può essere commesso che da un personaggio molto pio, o da una zitellona nota per le sue opere di beneficenza.
18. Il delitto, in un romanzo poliziesco, non deve mai essere avvenuto per accidente: né deve scoprirsi che si tratta di suicidio. Terminare una odissea di indagini con una soluzione così irrisoria significa truffare bellamente il fiducioso e gentile lettore.
19. I delitti nei romanzi polizieschi devono essere provocati da motivi puramente personali. Congiure internazionali ecc. appartengono a un altro genere narrativo. Una storia poliziesca deve riflettere le esperienze quotidiane del lettore, costituisce una valvola di sicurezza delle sue stesse emozioni.
20. Ed ecco infine, per concludere degnamente questo "credo", una serie di espedienti che nessuno scrittore poliziesco che si rispetti vorrà più impiegare; perché già troppo usati e ormai familiari a ogni amatore di libri polizieschi. Valersene ancora è come confessare inettitudine e mancanza di originalità:
a) scoprire il colpevole grazie al confronto di un mozzicone di sigaretta lasciata sul luogo del delitto con le sigarette fumate da uno dei sospettati;
b) il trucco della seduta spiritica contraffatta che atterrisca il colpevole e lo induca a tradirsi;
c) impronte digitali falsificate;
d) alibi creato grazie a un fantoccio;
e) cane che non abbaia e quindi rivela il fatto che il colpevole è uno della famiglia;
f) il colpevole è un gemello, oppure un parente sosia di una persona sospetta, ma innocente;
g) siringhe ipodermiche e bevande soporifere;
h) delitto commesso in una stanza chiusa, dopo che la polizia vi ha già fatto il suo ingresso;
i) associazioni di parole che rivelano la colpa;
j) alfabeti convenzionali che il poliziotto decifra.

Naturalmente seguire pedissequamente queste regole avrebbe tolto al giallo l'emozione e gli avrebbe tolto quel realismo a cui molti giallisti tendevano. Infatti Raymond Chandler nel suo famoso saggio "La semplice arte del delitto" scritto nel 1944 polemizza duramente con il romanzo poliziesco classico "riservato alle vecchie signore", perchè "il romanzo poliziesco deve essere realistico per quanto riguarda personaggi, ambiente e atmosfera. Deve trattare di persone vere in un mondo vero". Nel suo saggio Chandler loda Dashiell Hammett per per aver strappato il delitto al giardino di rose del vicario, dove lo tenevano ostaggio Agatha Christie e Dorothy Sayers, e averlo restituito ai vicoli, in "un mondo in cui i gangster possono dominare le nazioni e poco manca che governino le città".






sabato 8 marzo 2014

fatevi i gatti vostri n. 541 " Dante in anticipo"

Ho pensato che scrivere la domenica significa lasciare poco tempo a chi vol leggere e d'accordo con Bobby ho variato il mio giorno di post prendendo il sabato. Dunque Ttcca a me oggi, anzitutto scusate se negli ultimi tempi mi fo sentire poco, mi girano le palle e non  voglio trasmettere agli amici cari del blog questo fastidioso e vorticoso movimento. Ho però accettato volentieri l'invito di una pagina a tema nella quale le troppe polemiche che mi stanno dentro non troveranno spazio. Qui si parla di novelle.
E allora prendetevi un quarto d'ora di tempo, davanti a un bicchier di vino, ua grappa, un pònce, o anche una bella tazza di tè, caffè o orzo. Se vi piace leggere, leggete! Altrimenti  clicccate sul link qui sotto, socchiudete l'occhi e ascoltate. La voce è di Silvia Cecchini che ha una dizione italiana  guasi perfetta ma con una radice toscana che non gli si cancellerebbe nemmeno colla gomma da inchiostro. Dice che a noi ci succede così perché non ci  si vergogna del posto dove siamo nati anzi..... E anche se si vive in altre parti d'Italia o del mondo raramente se ne acquisisce l'accento come capita a chi desidera  omologarsi, non è roba per noi siam fatti così:
Peggiori.... Migliori... Mai  Eguali





Di solito le novelle che mi piacciono
sono novelle della mia terra o meglio
di quelle n'ho un armadio pieno in testa,
ma ne amo tante altre e mi garbano anche le fiabe
 per i bimbi. Insomma materiale
per intrattenevVi ne ho a bizzeffe.
Questa è una novella scritta da Ferdinando Paolieri.

Nacque a Firenze nel 78 (ottocento)
 prima bravo pittore alla macchiaiola
qui sono ci sono alcuni suoi lavori



qui sopra la passeggiata delle novizie
qui sopra tramonto estivo

poi prolifico scrittore , nel 28 (novecento)  s'era bell' e rotto le palle di questo mondo, ma in quella manciata d'anni dipinse e narrò la sua terra con maestria.

In questa novella, in particolare si avverte quasi la contemporaneità. Di vicende così ne capitano tutti i giorni. In fondo una breve biografia di Paolieri
un abbraccio a tutti Dante

GENTE MODERNA  file audio  per sentire cliccate sulla scritta in giallino a sinistra

GENTE MODERNA. testo

- Caro babbo - disse freddamente il cavaliere Adolfo, cassiere principale presso la Banca X...., è inutile disperarsi e discutere. Ho fatto male, lo so, ma se mi andava bene non sarebbe avvenuto nulla di grave, anzi.... Per conseguenza è perfettamente ozioso che tu ti scagli contro di me con gesti e paroloni da melodramma; in tal caso, io per difendermi...
- Difenderti?!
- Difendermi, sì.... il diritto alla difesa è sacro! Per difendermi, dunque, dovrei scagliarmi con gesti e paroloni da melodramma contro mia moglie per la quale, onde mantenerle il lusso, l'automobile e il quartiere elegante, io ho giuocato e perduto.... ergo, siccome ho trentacinque anni e nessuna voglia d'ammazzarmi, non rimane che pensare di escogitare un rimedio.
- Un rimedio? È presto fatto, o rimetti la cifra sottratta alla cassa, o vai in galera, o ti ammazzi.
- Ammazzarmi, io? Eh! no caro, finchè c'è vita c'è speranza ed io credo....
- Ma tu sei pazzo! pazzo, senza remissione. Dove vuoi che trovi, a quest'ora, duecentocinquanta mila franchi? Fosse stato ieri, stamani... ma ora, alle due di notte! Via, andiamo, non facciamo scherzi di cattivo gusto!
Il vecchio banchiere fremeva. Sapeva bene che il figlio conosceva l'origine della sua fortuna, oggi seriamente scossa, e rivedendosi riflesso in lui, come in uno specchio, non osava di pronunziare le grandi frasi. Anche lui, quarant'anni avanti, aveva giocato i denari degli azionisti affidati a lui, ma li aveva giocati in Borsa, in una operazione di grande stile, che, per di più, era riuscita bene. E quel tonto, quel babbeo, quel criminale idiota, era andato invece, a fare una serie di vuoti di cassa che erano arrivati, finalmente, a quella razza di somma e aveva subita l'ultima perdita proprio alla vigilia d'un ispezione!
Nella camera, dai tappeti soffici, illuminati soltanto dalla luce rosea della veilleuse, non si sentiva che il respiro affannoso della signora bruscamente svegliata dall'impetuoso e disperato ritorno del marito. Seduta sul letto, con un boa attorno al collo, i capelli magnifici sciolti giù per le spalle, essa girava attorno i grandi occhi attoniti incerta ancora se sognava o era desta.
E i due uomini, colle braccia incrociate sul petto l'uno, il più giovane, l'altro, il più vecchio, colle mani nervosamente intrecciate dietro il dorso, misuravano a grandi passi la stanza, e nessuno dei tre aveva ormai il coraggio di dire più nulla, tanto più che ciascuno tremava pensando a quel che sarebbe successo quando l'avrebbe saputo la madre del giovine cassiere, la signora economa e previdente la quale s'era scagliata tante volte contro la vita elegante della nuora.
La giovine nuora era di buona, modesta famiglia borghese e l'affare l'aveva combinato lo stesso banchiere il quale, fornita una istruzione al figliuolo e collocatolo a posto, s'era dato premura di accasarlo per tempo con persona di miti pretese per non spingerlo sulla strada pericolosa che lui aveva battuto da giovine e sulla quale l'aveva poi regolato raddrizzato e rimesso in careggiata l'oculatezza della signora Dionisia.
- Tuo figlio, soleva dire la madre previdente, tuo figlio dirazza, e, se non ne avessi l'assoluta certezza, direi perfino che non è tuo, da quanto è diverso da te. Egli deve essere un uomo onesto non deve provare scosse nè misurare gli alti e bassi dell'esistenza dei lottatori. Sarà un buon marito e un buon impiegato. E basta! E gli daremo una moglie borghese, non abituata al lusso, ai divertimenti, alle dissipazioni.
Conti senza l'oste!
La giovine sposa entrò ben presto al contatto del mondo che frequentava la casa del banchiere, contemplò gioielli che lei non possedeva, pellicce che non si sognava neppure, automobili silenziose come fantasmi... il marito, geloso, vedendo la moglie corteggiata e ammirata, non seppe rifiutarle nulla per timore di disgustarla, non solo, ma fomentò il suo gusto alle cose belle e sontuose, fiero di mostrarsi in società con quella donna che tutti gl'invidiavano, e cominciò, anche lui, a non contentarsi più della posizione sicura, ma umile, che il padre, accorto e conscio per esperienza come l'abisso si trovi sempre al piè delle cime, gli aveva procurato e, sentendo discorrere di operazioni, di società anonime, di contratti lucrosi, prese a confidare alla consorte dei progetti audaci per l'avvenire.
La signora non tardò a rivelargli, nell'intimità, ridendone lei per la prima, che uno degli assidui del suo salotto, il ricchissimo e bruttissimo borsista Lavoni, le aveva offerto, per prova, di entrare in qualche piccola speculazione, a titolo di esperimento, di saggio, con lui, s'intende senza che essa dovesse sborsare un soldo e aggiungeva, naturalmente, d'aver ricusato con energia.
Ma codesta manovra del borsista bastò a fare entrare un diavolo per capello al cassiere il quale promise a sè stesso di riuscire a procurarsi le somme necessarie a un tentativo di speculazione su certe azioni d'una miniera che promettevano di salire vertiginosamente.
Per comprarne un primo stock occorreva almeno una cinquantina di mila franchi e il cassiere ne prese delicatamente diecimila dal deposito della Banca e li puntò sul tappeto verde, dove sparirono come foglie secche a un soffio di tramontano.
Si imagina il resto della storia la quale finì, come tutte le storie di questo genere, con una specie dì lotta sorda fra l'uomo e la sfortuna, finchè quando la cifra arrivò ad essere perfettamente tonda (duecentomila lire!) insieme a codesto deficit, il cassiere trovò, per giunta, anche l'avviso d'un'ispezione.
E allora prese altre cinquantamila lire e giocò tutta la pòsta. Le raddoppiò. Non bastavano. Puntò daccapo, perse, riguadagnò e poi venne il crollo. Dopo il quale non gli restò, alle due di notte, che salire le scale di casa e svegliare il babbo, confidando che il passato del vecchio banchiere avrebbe servito di scudo al suo fallo.
Ma il tempo era troppo ristretto, le faccende dell'ex strozzino, dacchè s'era ritirato dagli affari, andavano bene a patto che egli camminasse sul fil del rasoio, e duecentocinquanta mila lire son sempre una bella cifra!
Motivo per cui tutti e tre, babbo e figliuolo e nuora, non sapevano assolutamente che pesci pigliare.
E quel cretino che non voleva saperne di abbandonare la moglie, di fuggire! Quell'imbecille che non aveva il fegato di spararsi una revolverata nel capo! Quell'idiota che trovava a quell'ora, e in quelle condizioni, l'ingenuità di invocare, di cercare un rimedio!
Roba da camicia di forza.
Ma tutte codeste considerazioni erano zuccherini in confronto alla paura terribile che tutti e tre avevano, senza osare di confessarselo, di vedere apparire nella sua maestosa vestaglia rossa, la rispettiva moglie, madre e suocera, nella stanza fatale.
E la suocera, incuriosita da certi rumori, si svegliò, trovò il posto del marito, accanto a lei, nel letto, vuoto, sospettò qualche imbroglio (conosceva i suoi polli) e in cuffia bianca, infilata la maestosa vestaglia color di rosa e inforcate le lenti montate in oro, sul naso aquilino, girò per la casa e trovò il terzetto al colmo della costernazione.
Tutti tacevano, col cuore nel petto che batteva come il battaglio d'una campana squassata a mortorio, aspettando l'esplosione.
Invece la signora Dionisia fu sublime.
- Prima di tutto, ella disse, proibisco le esclamazioni di qualunque genere e (rivolta alla nuora) i singhiozzi, perchè la servitù non s'avveda di niente.
«Poi, prego di esaminare esattamente la situazione. Non c'è nulla d'irrimediabile (il banchiere la guardava allibito) non c'è nulla di perduto. Di perduto e d'irrimediabile c'è la posizione e la onestà di Adolfo, ma si rifarà la prima e quanto alla seconda... vuol dire che era fatale! È un bel sogno svanito, ma almeno mio marito avrà avuto ora, finalmente, la vera prova che Adolfo è suo figlio.
La delicata osservazione non parve commuovere estremamente il banchiere....
«Dunque, riprese la signora, io possiedo un deposito di duecentocinquantamila lire, e che rappresenta quasi metà della nostra fortuna, a un'altra Banca, come sapete, in testa mia, e le svincolerò....
- E tu vorresti che noi?... Ma dobbiamo andare alla fame, dunque, per questi due imbecilli?
- Nemmen per idea! Tu, Adolfo, hai le chiavi della cassa?
- Le ho.
- Benone, tranquillizzati, mettiti in calma.... E stamani subito, per tempissimo, quando non c'è nessun impiegato, entra in Banca, apri la cassa e piglia altre duecentocinquantamila lire, poi vieni qui, e dalle al babbo; quindi vai alla stazione e fuggi.
«II babbo, consegnata a me la somma, (penserò io a metterla al sicuro) si recherà dal direttore della Banca e gli rivelerà che tu hai fatto un vuoto di cassa di mezzo milione e sei scappato. Il direttore convocherà gli azionisti e a loro il babbo offrirà le due corna di questo dilemma: O voi denunciate mio figlio e rovinate me e lui, senza pigliare un soldo, o vi contentate di tutta la mia sostanza consistente nella dote di mia moglie per duecentocinquantamila lire liquide, le quali, a patto che recediate da ogni proposito di denunzia, m'impegno a versarvi a titolo d'indennizzo, dentro quarantotto ore....
- Ma è una cosa grave!
- Ma trovami un mezzo migliore, se ti riesce! O fai arrestare tuo figlio e ti metti in condizione di non presentarti più in borsa, o, senza rischiare un soldo, fai una bellissima figura e ci salvi tutti. Gli azionisti son gente pratica, gente che più o meno ha scorso la cavallina degli affari e che si farebbe ghigliottinare prima di metter mano alla borsa. Essi apprezzeranno altamente il gesto d'un padre e d'una madre i quali si rovinano per rimediare il fallo d'un figlio, ne rimarranno commossi e siccome il male anderà diviso in piccole parti fra tutti, saranno felici vedendo che, di colpo, il danno subìto si riduce della metà senza scandali le cui conseguenze si rifletterebbero indiscutibilmente anche sulla banca e quindi su loro medesimi.... Mentre noi, non avremo altro incomodo che quello di tenere per qualche tempo infruttifera la somma, finché le faccende non saranno accomodate. Mi pare, dunque, che Adolfo farà bene a preparare due cose: la valigia e una lettera di dimissioni.... Quanto al suo avvenire.... Sono i contrasti della vita che formano i caratteri e io credo che tutto il male non venga per nuocere. Non ci mancano, per fortuna, le aderenze e nostro figlio potrebbe profittare delle offerte di quel tuo antico socio di Londra....
Il banchiere, a capo basso, pareva riflettere profondamente, e taceva.
La signora Dionisia gli mise amorevolmente una mano sulla spalla: Ma se è cosa fatta.... andiamo! benedetto uomo! Vedi come ti sei ridotto, mentre potevi aver fatto milioni durante la guerra, per il tuo orrore delle speculazioni coraggiose, per la tua onestà.... Questa è una lezione che ci dà il destino.... vinci gli scrupoli!
Ma il banchiere rialzata la testa, rispose, quasi parlando ancora a sè stesso: Macchè scrupoli! pensavo... se non fosse meglio offrire agli azionisti duecentomila lire sole... infin dei conti è una cifra che non si trova sotto un mattone.
- Così tu mi piaci. Ora riconosco mio marito! coraggio e avanti!
«Un galantuomo, come te, che adora la propria famiglia, deve lottare e trasformare le avversità in benefizii! coraggio, Adolfo! sarai più fortunato un'altra volta.... intanto, vediamo se, dato che hai perso il posto, ci riescisse di salvarti, in quest'affare, una cinquantina di mila lire.... ti farebbero comodo per ricominciare a formarti, onestamente, una posizione.
- Hai ragione, esclamò il banchiere, hai ragione.... ho bell'e deciso in questo senso e non se ne parli più.
La signora Dionisia ritornò a letto, i due uomini andarono nello studio a compilare la lettera di dimissioni, e la sposina rimase sola a rimuginare come avrebbe fatto per ricondurre senza parere, il brutto borsista Lavoni sull'argomento di quella certa speculazione che aveva respinta, inconsideratamente, pochi mesi prima.
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Ferdinando Paolieri nacque a Firenze il 2 maggio 1878.
Spirito irrequieto e sempre alla ricerca di una propria strada, sperimentò differenti forme d'arte, dalla pittura alla poesia, alla novellistica, al teatro. Rifiutò la comoda strada dell'avvocatura, caldeggiata dal padre, preferendo la vita da bohemien dell'ambiente dei macchiaioli toscani, specialmente sotto l'influsso del Fattori. La sua vocazione per la pittura, rafforzata dal successo di due sue tele esposte a Monaco nel 1903, si concretizzò con l'apertura di uno studio da pittore a Firenze assieme ad altri amici che avevano condiviso fino a quel tempo la sua vita libera.
Ma presto si dedicò più compiutamente alla scrittura e già nel 1908 compose la sua prima opera, il poemetto in ottave, Venere agreste, ispirato alla sensualità pastorale di cui già si era fatto portatore il D'Annunzio e che rappresenta l'unico cedimento del Paolieri alle mode e correnti del suo tempo. Infatti questo autore restò sempre fuori dalle mode letterarie del primo Novecento (futurismo, realismo magico, parnassianesimo, ecc.). Egli mantenne quasi costantemente la sua opera nel solco della tradizione della letteratura regionale, che in quegli anni era segnato soprattutto da Fucini.

Aveva già iniziato la sua attività di novelliere con i racconti di Scopino e le sue bestie(1911). Nello stesso anno di fondazione de "La Torre" pubblicò le Novelle toscane(1913), e successivamente le Novelle Selvagge (1918), le Novelle incredibili (1919),Uomini, bestie, paesi (1920), Novelle per soldati (1926), Novelle agrodolci (1925): tutti bozzetti ricchi di vivacità e sapore, ma volutamente limitati da un ambito di provincialità. Lo stesso carattere hanno i romanzi: Storia di un orso e di una gatta (1921); Natio borgo selvaggio (1922), che è giudicata la sua opera più matura e interessante; La maschera celeste (1922); I fuggiaschi (1924); Amor senz'ali (1928): serie di quadretti, di scenette, non privi di argutezza e di vigore di linguaggio, nonché di sapiente dosaggio dei sentimenti.Dapprima appassionato anticlericale, fondò a Siena nel 1913 con Federigo Tozzi e Domenico Giuliotti il settimanale "La Torre", che si autodefinì «organo della reazione cattolica». Partecipò alla prima guerra mondiale distinguendosi per atti di valore.
Fu per lunghi anni redattore de "La Nazione", su cui tenne la rubrica letteraria e drammatica.
Tutta l'opera di Paolieri si situa nell'ambito di un tenace conservatorismo letterario e culturale di tradizione toscana, da cui egli riprende il gusto per una lingua ricca di compiacimenti dialettali, di ornamenti, di preziosismi, e la misura del bozzetto, descrittivo o narrativo, sullo sfondo di paesaggi e di contorni descritti con compiacimento come primitivi e selvaggi: la maremma, l'Isola del Giglio, l'Impruneta. Ma quello che gli manca è un tessuto fantastico che lo porti su un piano letterario diverso da quello, limitato, delle personali esperienze.
Paolieri scrisse pure per il teatro, in lingua e in dialetto; tra le opere si ricordano le commedie I' pateracchio (1910), in vernacolo chiantigiano molto arguto e felice, rappresentata nel 1911 dalla compagnia Niccóli; Il chiù (1911); Gli antidiluviani (1912), scene maremmane piene di colore rusticale; e infine il dramma religioso La mistica fiamma (1927), dedicato a S. Caterina da Siena. In collaborazione con Giovacchino Forzano scrisse Stenterello e il granduca.
Fu pure librettista di operette: La marchesa nuda (1912, per R. Leoncavallo); Bacco in Toscana.
Morì a Firenze nel 1928.
Fonti:
  • Giulio Bucciolini, Ferdinando Paolieri, Firenze 1921.
  • Mario Puccini, Scrittori di ieri e di oggi, Napoli, Guida, 1933.
  • Silvio D'Amico, Il teatro italiano del Novecento, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli 1933.
  • Luigi Ugolini, Ferdinando Paolieri, trent'anni dopo, in «Nuova Antologia» XI 1959.
  • Albani-Vacca (a cura di), Ferdinando Paolieri. Atti del convegno di studio. Vita e Opere. Impruneta 27-28 maggio 1988. Bologna, Printer, 1991.