LA notizia dell’attribuzione a Dario Fo del Nobel per la letteratura, nel 1997, invase i media come un terremoto destabilizzante. Perché imponeva una presa di coscienza del peso mondiale assunto dal drammaturgo Fo. Che fosse un bravo teatrante si sapeva. Ma al punto da meritare il Nobel? Proprio il ribelle, il guitto, il dinamitardo Fo? L’extraparlamentare incavolato coi governanti di ogni risma? La più anti-televisiva fra le star dello spettacolo? L’autore odiato dalla destra e troppo a sinistra per i comunisti? Eppure non ci sarebbe stato tanto da stupirsi, considerando che in quell’anno erano contemporaneamente in scena, distribuite nei vari continenti del pianeta, qualcosa come quattrocento regie degli spettacoli di Fo. Il fatto che russi, peruviani, svedesi, neozelandesi, cinesi e americani applaudissero il suo teatro, al di là della contingenza e della visione del corpo recitante dell’attore-autore, ne dimostrava il valore intrinseco e la forza letteraria.  
Ciò nonostante in molti rabbrividirono per un riconoscimento che premiava, scegliendo Fo, l’esercizio di una satira feroce rivolta a tutte le istituzioni e alla morale comune. Dario era l’incarnazione dell’ostilità a ogni forma di potere e l’antitesi del tipico “intellettuale organico”, concentrato sul mantenimento dell’egemonia culturale. Sfuggiva a cricche, logge, salotti. Più che compiacere i pensatori dominanti, li derideva. Senza compromessi né sfumature. Le sue pièce tagliavano l’universo con l’accetta in due parti distinte, contrapponendo gli schiavisti e le loro vittime sociali, i danarosi e gli affamati, i borghesi ben pasciuti e i disgraziati proletari. Non c’era redenzione in tale sfida. Né nel mito o nella Storia, né nell’attualità. La sua distanza da ogni possibile mediazione suonava intollerabile per un paese che sulle ambiguità etiche e le indefinitezze ideologiche, specialmente nei decenni di fine Novecento, ha costruito la propria identità.  
Fin dalla gioventù Fo aveva abitato il palcoscenico con estrema fisicità, da uomo d’azione pronto a usare le parole a modo proprio, con libertà spudorata e voglia di scompaginare le norme del gioco. Artista completo, venuto dall’architettura e dalla scenografia, e pronto a misurarsi, nel dopoguerra, con un genere di “acida” rivista teatrale fondata sulla mimica e la stilizzazione delle gag, ha cercato dall’inizio le sue radici nel teatro comico di Plauto, nel vaudeville e nei lazzi della Commedia dell’Arte. I suoi copioni poco etichettabili avevano nomi astrusi e sconclusionati. Ed era esplicita la sua concretezza nel gusto di rifarsi alla realtà. Gli piacevano episodi ripescati da tradizioni scritte e orali, parabole da dissezionare, momenti e personaggi estratti dalla cronaca, peccati capitali da sfottere. Vedi Isabella, tre caravelle e un cacciaballe, Settimo: ruba un po’ di meno, L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone e tanto altro: la lista conta una settantina di titoli. Raccontava gli accidenti umani come un dannato guastafeste per chiunque. Se col Mistero buffo, nel ’69, aveva provocato l’ira del Papa e della Democrazia Cristiana, i vertici del PCI non gradirono la sua plateale indignazione per l’invasione russa della Cecoslovacchia, le sue denunce del lavoro nero in Légami pure che tanto io spacco tutto lo stesso e le fustigazioni inferte all’apparato giuridico in Morte accidentale di un anarchico.
 
La motivazione del Nobel segnalava la sua facoltà di emulare i buffoni del Medioevo dileggiando i potenti e restituendo dignità agli umili. Semplice ed esatto. Il genio della drammaturgia di Fo sta nella capacità di alimentarsi del teatro di protesta maturato lungo i secoli in quella zona della Storia omessa o trasformata dalle versioni degli avvenimenti piovute dall’alto. Questo materiale ibrido e “sporco”, nella scrittura di Dario, si nutre di una reinvenzione straordinaria della lingua. Fo è il sovversivo che esplora il linguaggio, lo rivela e lo fomenta per poi usarlo come arma di lotta. È il Fool che accende la gergalità rendendola esplosiva. È l’artefice di una prosa indiavolata che gli appartiene intimamente, come un prodotto originale. Ma che al contempo sgorga da un magma preesistente di canti popolari, invettive giullaresche, poemi di cantastorie, affabulazioni di paese e mosaici linguistici generati dall’intreccio dei dialetti. Soprattutto in questa vitalità comunicativa, che è antica e nuova con la stessa precisione, sta l’eccellenza e l’unicità di un classico.